Al pari dell’internazionalismo pacifista, la sensibilità per l’ambiente naturale riemerse con la rinascita del comunismo durante e dopo la prima guerra mondiale. Non ci fu il crollo generale del capitalismo, ma una sua crisi profonda segnata dalla vittoria della rivoluzione d’Ottobre. Della cultura ambientalistica del comunismo abbiamo tracce importanti nella legislazione post–rivoluzionaria nella Russia dei primi anni ’20, e nello stesso Lenin35. Ma la guerra civile, l’intreccio tra difficoltà reali e polemiche interne, infine la ristatualizzazione operata dallo stalinismo, fecero sì che sulla continuità dell’elaborazione teorica alternativa prevalesse la restaurazione della logica storica dettata dalla crisi europea, e del sistema internazionale nel suo complesso, e dal capitalismo, con il privilegio concesso alla prassi umana nei confronti dell’oggetto naturale esterno. Non cadde certo la ricerca scientifica; ma essa si sviluppò secondo i canoni dell’ideologia e la logica degli interessi dell’assetto complessivo. Le condizioni ambientali dei territori dell’Unione Sovietica e dei paesi alleati erano, alla caduta del sistema del "socialismo reale", non solo territorialmente pessime, ma tali da costituire una parte rilevante del disastro globale36. Per uno sciagurato paradosso, le sorti del marxismo erano nel "secolo breve" affidate in misura considerevole alla cultura e alla prassi politica dell’Unione Sovietica. Né si può dire che il marxismo occidentale abbia cooperato a ridare alla teoria lo spessore critico e l’attitudine ai grandi problemi del presente che l’avevano in altri tempi caratterizzata. Tracce di marxismo ci sono in tutta l’elaborazione ecologica; ma é significativo – anche se limitativo dell’efficacia scientifico–politica dell’elaborazione stessa – che gli studiosi partano generalmente non dalla critica dell’economia politica del capitalismo, ma dai dati quantitativi dei problemi; non da una base teorica alternativa, ma da argomentazioni di necessità d’ispirazione riformistica; un’impostazione che ha recepito e dilatato l’"ecocidio" sovietico. Per tutto ciò l’incontro del marxismo con l’ecologia nella seconda metà del "900 e fino ai nostri giorni ha dato luogo a scarsi risultati37.
Torniamo ora agli svolgimenti della disciplina storiografica in relazione alla rivoluzione industriale. Venticinque anni dopo il fondamentale libro di Polanyi, in piena "età dell’oro", David Landes coglieva la sua essenza nella complementarità di "spirito di razionalità" e di "etica faustiana", e parlava in termini positivi della "manipolazione razionale dell’ambiente materiale e umano", riservando alla fine del suo Prometeo liberato qualche cenno di preoccupazione alla sopravvivenza dell’umanità, del resto sacrificabile all’avventura del progresso. Lo stesso autore aveva premesso che il problema, se il cambiamento sia avvenuto "per il meglio o per il peggio [...] riguarda la filosofia morale e non la storia economica"38. La distanza dalla coerenza della posizione metodica e etico–scientifica di Polanyi – e dalla capacità di questi di tenere uniti i due piani – é sensibile; potremmo dire che, nonostante il lungo tempo intercorso, Landes é in ritardo d’un paradigma rispetto allo studioso ungherese.
In linea generale, a partire dagli studi di T.S. Ashton39 (1948), nell’ultimo mezzo secolo, prima e dopo l’uscita del libro di Landes, il contributo degli storici al tema del rapporto tra industrialismo capitalistico, e crescita industriale in generale, e distruzione dell’ambiente naturale é stato scarso, o si é limitato ad esprimere preoccupazioni sullo stato attuale del rapporto. Le posizioni in materia di rivoluzione industriale che cercheremo di delineare non vogliono dar luogo ad una classificazione definitiva e neppure completa, nè esaurire la produzione e neppure la mente dei singoli autori.
In una serie di contributi manca del tutto la considerazione del problema. Sul piano problematico che assumiamo, essi sono cioé pre–ecologici, il che, se é normale per gli autori dell’800 e della prima metà del ’900, assume un aspetto paradossale per coloro il cui contributo di ricostruzione e di pensiero storico é più vicino alla fine del secolo XX. In questo periodo infatti é avvenuta, pur con i limiti cui abbiamo già fatto cenno, la presa di coscienza ecologica e si é diffuso il relativo allarme. Sia chiaro che il nostro é un giudizio di fatto dal quale non esce minimamente intaccato il rispetto che sempre va riservato alla ricerca storica.
In alcuni autori resta caratterizzante una interpretazione "prometeica’ che tuttavia lascia spazio a gravi preoccupazioni relative all’ingovernabilità del trend. Resta inteso che i pericoli attuali non appartengono alla struttura organica del capitalismo, ma sono un sottoprodotto del progresso della civiltà industriale.
Al caso di David Landes possiamo aggiungere – ma anche in un certo senso contrapporre – quello, più chiaramente e apertamente autocritico, di Carlo M. Cipolla, che si guarda bene dall’istituire un testa–coda tra storia (e scienza storica) e etica. In un noto profilo di storia economico–demografica dato alle stampe nel 1960 (cioé in piena golden age) egli, dopo aver ricordato lo "sfrenato ottimismo" dei decenni tra il 1850 e la prima guerra mondiale, si esprime in termini fortemente dubbiosi sul presente e l’avvenire della specie umana:
"Col progredire dell’industrializzazione i benefici delle unità addizionali della produzione industriale diminuiscono mentre aumentano i loro costi sociali ed economici. Nei paesi sviluppati il progredire dell’industrializzazione sta creando ogni sorta di problemi in tutti gli aspetti della vita, nel campo dell’ecologia come in quello delle relazioni umane, nel campo dell’alimentazione come in quello dell’istruzione, sul piano materiale come su quello spirituale. Mentre ci sforziamo di risolvere un problema, ne causiamo ingenuamente un altro. La situazione é da incubo e noi ce ne siamo resi conto solo in epoca molto recente e quasi d’improvviso. [...] ci si rende conto sempre più del fatto che la Rivoluzione Industriale ha permesso alla specie umana di svilupparsi numericamente e di estendere il proprio controllo sull’ambiente a un punto in cui gli equilibri sui quali si fonda la vita su questo pianeta sono seriamente minacciati. Per troppo tempo, nell’eccitazione dei nostri progressi, siamo stati accecati dalle nostre stesse invenzioni. Ora stiamo cominciando a chiederci fin dove potremo arrivare. [...]
Non c’é nulla nel meccanismo della diffusione della Rivoluzione Industriale che possa garantire a priori che i risultati materiali ottenuti verranno usati per finalità buone. Se l’umanità non farà uno sforzo enorme per autoeducarsi, non si può escludere completamente la possibilità che la Rivoluzione Industriale possa rivelarsi infine come una calamità disastrosa per la specie umana"40.