Gli storici che avevano studiato ex professo la rivoluzione industriale prima di Polanyi, e ne avevano anzi specificato natura e caratteri, o avevano ripensato criticamente il percorso del capitalismo – il primo Toynbee, Charles Beard, Paul Mantoux, gli Hammond, gli Webb, Sombart, Schumpeter, quest’ultimo in un libro (Capitalismo, socialismo, democrazia) che era anch’esso influenzato dalla seconda guerra in corso e che teorizzava il "processo di distruzione creatrice" come "fatto essenziale del capitalismo" – non erano giunti e neppure s’erano avvicinati alle conclusioni de La grande trasformazione. Ma già tra le due guerre, specialmente per opera di J.H. Clapham25, s’era affermata una controparte per la quale il capitalismo, nelle forme assunte tra "700 e "800 era stato ab initio apportatore di crescenti benefici alla classe operaia. Un momento memorabile della polemica filocapitalistica fu la pubblicazione nel 1954 di Capitalism and Historians, a cura di F.A. Hayek26, con scritti dello stesso Hayek, di T.S. Ashton, di R.M. Hartwell e di altri. La battaglia, che aveva un evidente sfondo politico, fu sostenuta da parte marxista specialmente dal giovane Eric Hobsbawm27.
Prima e dopo il 1945 la divisione principale tra scuole e tendenze ha riguardato dunque il pessimismo o l’ottimismo circa le conseguenze sociali della rivoluzione industriale e, più in generale, sull’avvenire del capitalismo e sulla eventuale transizione al socialismo in una prospettiva di regolarità, tale da non escludere crisi e moti sussultori ma da rappresentarne la componente in uno scenario di maestosa infinità della vicenda umana, che era fonte di sicurezza storico–esistenziale.
Polanyi veniva quindi a portare una novità epistemologica il cui rilievo qualitativo possiamo meglio intendere proprio nella comparazione con gli studi coevi e successivi. Gli Studies di Maurice Dobb, e i suoi stessi lavori teorici28, editi prima e dopo la conclusione della guerra, ma figli anch’essi della crisi degli anni "30–"40, non contemplavano quelle nuove dimensioni e premonizioni, ma si presentano come aggiornamenti e sviluppi dell’eredità marxiana nelle condizioni inedite, ma positive, determinate dall’avanzata del socialismo nel mondo.
Della rivoluzione industriale in particolare, viene tracciato un quadro attento alla moltiplicazione delle merci e alle ricadute sociali, ma tutto interno ai rapporti diretti economia–società, e muto per quanto riguardava il salto qualitativo nei rapporti con le condizioni, in apparenza esterne e puramente pre–economiche, della produzione; attento alla crescita ma non alle condizioni, agli ingredienti fisici, alle conseguenze ambientali di essa. La storia e l’economia da un lato e la natura dall’altro sono ancora, in Dobb, mondi reciprocamente estranei, e la caratterizzazione del movimento storico é data dalla espansione di quello che si sarebbe chiamato "socialismo reale".
Marx e Engels non erano certo stati ciechi in materia di distruttività del capitalismo, di rapporti tra ambiente naturale e industria e sulla rapina che il sistema operava nei confronti della natura29; ma nella loro visione storica – i cui criteri epistemici sono a mio avviso più che mai indispensabili per un quadro eziologico dei problemi globali – l’epopea del progresso borghese come creazione della civiltà moderna e transizione ad una civiltà superiore finiva con il giustificare i suoi costi; essi parlavano infatti di un modo di produzione che ritenevano già entrato nell’epoca della propria fine, e quei costi erano l’altra faccia della formazione della classe operaia e del suo protagonismo come soggetto di un nuovo progresso storico. Ma questa impostazione morfologica del futuro prossimo ebbe anche severi costi teorici. Ha scritto giustamente J. Martinez–Alier: "La visione ecologica delle condizioni dell’esistenza umana poteva essere facilmente collegata al marxismo attraverso una definizione adeguata di forze produttive. Ciò é quanto Marx non fece"30. La questione é molto discussa, ed é legittimata dalla perfetta compatibilità tra i criteri dell’analisi marxiana del capitalismo e il comportamento ecologico di questo.
Le varie osservazioni critiche "pre–ecologiche" dei due studiosi comunisti e la loro pregnanza macrostorica ebbero, tra i dirigenti politici e gli studiosi marxisti della generazione della Seconda Internazionale e della "Grande Guerra" un seguito diverso, racchiuso nella formula "socialismo o barbarie", che ipotizzava una fine del capitalismo in assenza tuttavia d’una capacità di successione del proletariato, e quindi una lunga crisi di stagnazione storica, sul modello della caduta della civiltà romana e del Medioevo31. L’ipotesi storica, ricalcata sulla falsariga del Manifesto del 1848 e quindi sulla previsione di una "comune rovina delle classi in lotta", non contemplava tuttavia una crisi disastrosa e terminale dei rapporti tra il capitalismo e la natura; la storia del marxismo é invece attraversata, come é noto, da una ipotesi, quella del cosiddetto Zusammenbruch – cioé d’un crollo del capitalismo dovuto all’instabilità delle sue strutture32 – che in età "preglobale’ era diversamente ragionata, e non s’é in effetti verificata, ma che in qualche misura si ripropone all’attenzione critica in relazione all’incapacità del sistema di gestire i rapporti con le condizioni e i limiti naturali posti alla produzione33, e quindi alla vocazione catastrofica nella quale esso finirebbe con il coinvolgere la civiltà umana e l’habitat biologico complessivo34.