Resta da chiedersi quanto del franare della storia e dell’insufficienza del canone storiografico usuale venga percepito dagli storici, e se il grande "ritorno a casa" della cultura militante dopo il trionfo mondiale della monarchia capitalistica e più precisamente imperialistica non abbia anche comportato un arretramento rispetto ai rapporti tra storiografia e politica, e tra passato e presente. E anche perchè non venga compresa e messa in atto la necessità di sorpassare a sinistra la vecchia cultura democratica, di andare oltre il comunismo ufficiale e oltre il marxismo "ortodosso" non nei modi raffinati della riscoperta del liberalismo–liberismo (o, in Italia, del caudillismo gansteristico e affaristico del centro–destra), per riallacciare un rapporto analitico col presente; per rendersi conto che l’epopea della globalizzazione si rovescia nella inesportabilità del modello vincente e nella intollerabilità globale dei suoi indici, nei quali é la culla dei passati "valori"; per porre in discussione le guerre e i rischi, lo scadimento morale e l’oscuramento delle prospettive18, in una condizione che richiede una soluzione rivoluzionaria fondatrice di valori nuovi.
Non si pretende che coloro ai quali il progresso straordinario del movimento storico innescato dal capitalismo ha dettato in passato interpretazioni ottimistiche e teleologiche, dovessero scoprire l’esito infausto che stiamo ora vivendo e che tanto ci responsabilizza nei confronti di figli e nipoti. E non si pretende neppure che gli storici diventino tutti, per usare un’espressione di Anders, specialisti di fine del mondo. La fine del mondo é interdisciplinare. Sarebbe però opportuno che si avviasse una generale revisione dei traguardi storicistici e scientistici, e che si facesse posto ad una nuova cultura, ad un uso di strumenti critici dai quali anche dipende ciò che sarà dei figli e dei nipoti. Le esplorazioni d’archivio, le ricerche locali, così come le ricostruzioni parziali, le biografie, le efemeridi microstoriche possono sussistere, e guai se fossero abbandonate. E tuttavia – mentre una nuova pregnanza vengono ad assumere le prospezioni e le proposte panottiche, particolarmente quelle che riguardano la storia moderna e contemporanea – é importante che anche chi studia e scrive di storia speciale e parcellare dell’ecumene occidentale sappia che la retorica del progresso sussiste ormai a costo di un occultamento del resto del mondo e delle sue ragioni, e dell’accettazione d’un senso e di una filosofia del miglioramento che sono contraddetti dai fatti. Le stesse operazioni storiografiche tradizionali, e del resto tradizionalmente costitutive dell’ethos della disciplina, sono ammissibili solo in quanto non siano il controvalore di una tale accettazione e sappiano dotarsi di una nuova scepsi generale.
La rimessa in discussione della civiltà occidentale dalla parte dei suoi esiti diventa sempre più fondatamente sospetto critico sui suoi percorsi. Tracce importanti noi troviamo nelle osservazioni degli ecologi. Ben pochi di essi, a quanto so, sono storici di formazione; prevalgono di gran lunga gli scienziati, biologi, chimici, geologi, botanici. Ma dalle loro ricerche esce un continuo rinvio alla storia, che é anche – come vedremo – una "chiamata’ rivolta agli storici; e spesso essi hanno esercitato un ruolo di supplenza là dove la storiografia non é ancora arrivata, o si mostra combattuta e incerta, restando fondamentalmente al di qua del nuovo paradigma critico e – per dirla chiaramente – del relativo impegno etico e politico. I risultati degli studi ecologici costituiscono un implicito rimprovero alla storiografia per aver trascurato le componenti naturali e le implicazioni ambientali della crescita economica e dei "valori" che essa genera.
Inadeguatezza della storiografia, e di questi stessi appunti
Ho parlato, all’inizio della mia esposizione, di fallimenti e inadeguatezza, e ho anticipato che ne avrei portato qualche esempio. La concisione – inevitabile in questa sede – dei rilievi che mi accingo a fare mi costringerà ad una certa sommarietà di esposizione e di giudizi; su alcuni punti dovrò tuttavia insistere più a lungo. L’esposizione é, ripeto, il compendio d’uno studio di proporzioni più ampie, nel quale sono impegnato ormai da vari anni con esiti ancora insoddisfacenti, ma che non ho rinunciato a perfezionare e pubblicare. Non presento una rassegna critica esaustiva, ma solo appunti provvisori e preliminari. Spero che valgano intanto ad animare la discussione.
Vorrei dunque considerare due grandi temi storici, la rivoluzione industriale e la caratterizzazione del presente: il primo tema ci porta alla formazione della moderna fisionomia del capitalismo occidentale; il secondo al secolo XX, e particolarmente alla seconda metà di esso, e alla insostenibilità della dinamica in atto. L’immensità dei problemi varrà, spero, a giustificare l’inadeguatezza delle osservazioni.
Sul primo punto potrò diffondermi con una maggiore larghezza, anche dando all’espressione "rivoluzione industriale" quel significato di lungo processo per il quale propende ormai la generalità degli studiosi; il mio intento é infatti di collegare lo stato attuale del rapporto tra attività umana e natura alla dominanza del modo di produzione capitalistico–industriale.
Al secondo punto mi riferirò in modo assai più rapido; non c’é bisogno di molte pagine per illustrare quanto é in realtà sotteso a tutto il discorso.
Sulla rivoluzione industriale
Che la rivoluzione industriale si imponga all’attenzione degli ecologi é perfettamente comprensibile. Da lì vennero quella spinta alla produzione e quel salto tecnologico (e relativa filosofia diffusa) nei quali si può sempre più chiaramente vedere l’origine storica dei problemi ambientali attuali; nella continuità di quella spinta per rivoluzioni tecniche e per l’autoalimentazione del ciclo distruzione–creazione si manifesta il conflitto sempre più acuto tra storia e natura, e addirittura il preannuncio d’una crisi potenzialmente mortale.