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La cultura storica e la sfida dei rischi globali - Page 3


In linea generale, a noi sembra che proprio sulle attinenze storiografiche si siano stabiliti equivoci spiacevoli, che possono ritardare il processo di una nuova storiografia. Non si tratta infatti di aggiungere agli studi storici qualche area nuova o trascurata, o un’ennesima appendice specialistica. Si parla di "ecostoria", ed io confesso di ignorare se ci siano già le relative cattedre di legittimazione e normalizzazione di questa nuova sub–disciplina. Si sa tuttavia che in Italia l’istituzionalizzazione di sub–discipline ecologiche o paraecologiche procede nel deprecabile stile nazionale del ritardo e del disordine. Non bisogna confondere le sorti della scienza con le etichette che apponiamo ai suoi singoli gabinetti, ma non si può neppure condividere la fretta di chi vorrebbe risolvere i nuovi problemi scientifici e epistemologici, che sono per loro natura generali ed estremi, con un trattato di buon vicinato, o di spartizione territoriale, tra la storiografia tradizionale e i paradigmi cognitivi imposti dai processi di tracimazione del modo di produzione.
Proprio perchè i nuovi problemi sono generali ed estremi, tanto da chiamare in causa la stessa sopravvivenza dell’umanità, il rilievo non riguarda solo la storiografia. Esprimersi in termini di "modo di produzione" involge un problema generale di conoscenza critica. Lo stesso potrebbe infatti dirsi della filosofia, dell’economia, della psicologia e delle altre "scienze umane". Gli stessi studiosi di scienze fisiche sono divisi sui problemi che abbiamo chiamato "finali". Lo scientismo impera tra gli scienziati, così come il suo pendant umanistico, lo storicismo, é ancora in auge tra gli storici, almeno nello strato intermedio e però maggioritario dei ricercatori. Il sospetto critico (la scepsi) sugli approdi del progresso appartiene solo a chi si misura sulla storia generale della civiltà dell’uomo; allo stesso modo l’orizzonte della maggioranza degli scienziati é ancora quello del meccanicismo progressista, che ha costituito la scena filosofica del tipo di scienza sviluppatosi negli ultimi quattro o cinque secoli, alla cui base sta la concezione della natura come oggetto del sapere–potere dell’uomo.
Tuttora non é facile riscontrare un accordo tra gli scienziati su alcuni punti essenziali riguardanti il presente e il futuro dell’uomo in relazione allo stato materiale del Pianeta e ai problemi fisici di soglia. Solo per fare qualche esempio, diventa sempre più difficile negare l’incidenza dell’attività del sistema produttivo dominante e delle sue tecniche nel determinare l’effetto–serra e le convulsioni meteorologiche degli ultimi anni, oppure la rarefazione della fascia di ozono; e tuttavia l’atteggiamento di molti scienziati e ricercatori é di sospensione del giudizio per mancanza di sufficienti prove scientifiche. Il che significa considerare l’ecosfera come laboratorio sperimentale, e affidarsi al fiducioso fatalismo o all’ottimismo nella capacità dello stesso sistema e delle sue tecniche di superare la crisi. Resta così la difficoltà filosofica al problema del non–più dell’essere, che viene alimentata da una componente psichica di rimozione coltivata dall’intero sistema educativo, che va dalla scuola al giornale alla televisione. A proposito del quale impressiona che in Italia si parli di scuola soprattutto in chiave di concorrenza tra il pubblico e il privato e che la competizione ai livelli più bassi dell’impresa televisiva abbia retrocesso a strumento di intrattenimento marcatamente sex–edonistico il più poderoso mezzo di comunicazione del secolo XX.
Ovviamente, l’attuale fenomenologia dell’estremo e tendenzialmente finale, e le considerazioni infauste che essa suggerisce, appartengono all’ambito della ragione scientifica: non si tratta, cioé, di millenarismo o del terrore d’una punizione divina, anche se non é da escludere che dimensioni di questo tipo riaffiorino nel magma della caduta del sacro e della crisi dei valori. Non é il caso di insistere su ciò, benchè sia tuttora frequente, anche nelle discussioni ad alto livello, trovarsi accusati di qualche forma di irrazionalismo e neooscurantismo.
Semmai, c’é da notare l’impreparazione del pensiero laico ad affrontare situazioni estreme inedite con gli strumenti della cultura trasmessa; nelle discussioni in proposito é stata talvolta fatta notare la mancanza d’una escatologia critica, e quindi la necessità d’una razionale, stoica e laica, cultura della crisi10. Non é senza significato che il "gap prometeico" – del quale diremo tra poco – si estenda anche alla difficoltà di trovare antidoti culturali agli eccessi di Prometeo, cioé all’altezza dei pericoli che la prassi umana provoca all’umanità stessa.
L’imminenza e l’enormità della sfida sono in drammatico contrasto con il ritardo nell’attrezzarsi per affrontarla, ritardo che é in primo luogo intellettuale ma si riverbera sul piano delle misure pratiche. Ci sono eccezioni marginali: la riflessione ha raggiunto livelli elevati, ma del tutto minoritari di consapevolezza e di denuncia che toccano solo congiunturalmente e lateralmente i mezzi dell’informazione di massa; misure pratiche vengono elaborate in sede internazionale, ma quando dovrebbero passare allo stadio operativo sono sottoposte nei gabinetti della politica e nelle sedi congressuali specifiche a compromessi e a riduzioni drastiche, quando non sono tout court respinte dai poteri economici dominanti, specialmente statunitensi11.
Si imputa questo ritardo, oltre che agli interessi del capitale, all’ideologia del progresso. Il profondo radicamento di questa nella civiltà occidentale non é tanto un fatto di alta scienza e di alta filosofia, e non appartiene solo alla mentalità diffusa, ma si basa su dati reali, diversi per tempi e luoghi ma concomitanti12. Nè si tratta solo di crescita produttiva, ma di accesso reale o immaginario di grandi masse dei paesi capitalistici alle possibilità di consumo e al godimento del tempo libero tipici della borghesia della prima metà del secolo, che ha avuto corrispettivi nella crisi delle spinte alternative e dell’internazionalismo e ha quindi favorito dinamiche di ricolonizzazione, di violenza strutturale e di guerra all’interno del processo generale della globalizzazione.
Benessere e tempo libero significano consenso, e quella che noi chiamiamo democrazia, una volta levata via la zavorra egualitaria e la socializzazione del futuro, si riduce a consenso. E’ anche vero che di questa serie di riduzioni (da progresso a crescita; da benessere a consumo; da democrazia sociale a democrazia formale e a consenso elettoral–plebiscitario o ad astensione) e della sempre più grave deriva politica sono stati partecipi anche i partiti e le culture che rappresentavano in origine l’alternativa di pensiero e di forza e si facevano garanti dell’avvento d’una "internazionale futura umanità". Ma questa constatazione implica una serie di argomentazioni che sarebbero laterali rispetto al nostro assunto.