La centralità e la pregnanza del consumo di energia (e di quale energia) nella storia delle civiltà sono ormai largamente conosciute, sia pure che da questo riconoscimento possano sortire concezioni generali diverse, e pratiche politiche di contrapposizione e di guerra. Attualmente, al modello altamente energivoro di organizzazione sociale del capitalismo corrisponde – in assenza di presupposti culturali autocritici – una concezione della civiltà che ne misura i valori sulla base di dati quantitativi di crescita. Ma chi ha operato criticamente, assommando i dati allarmanti provenienti dall’osservazione sia sociale sia naturale, é arrivato a descrivere l’assetto economico–sociale attualmente dominante come pericolosamente minacciato non già da nemici esterni (questa tesi poteva semmai apparire dotata di validità fino al 1989–91), ma dal crescente squilibrio fra la tre condizioni fondamentali del modo di produzione: la sua vocazione espansiva, la relativa limitatezza delle fonti energetiche non rinnovabili, e il tempo della natura.
Di rischio globale si può appunto parlare quando il peso dello squilibrio si trasferisce dall’interno all’esterno ambientale del sistema; ad esempio quando il livello della produzione di residui industriali dannosi oltrepassa la capacità omeostatica della natura, ciò appunto che caratterizza attualmente il rapporto tra prassi produttiva e biosfera.
Jeremy Rifkin parla di "imperativo entropico" e di "spartiacque entropici"1 che si presentano in corrispondenza della necessità di superare una condizione di insufficienza energetica; oggigiorno, un aumento del flusso energetico provocherebbe (sta provocando) una crisi entropica finale. Le pressione degli investimenti in direzione di un sempre maggiore consumo di energia e quindi l’aumentata produzione di residui venefici fanno coincidere lo spartiacque con una soglia, o un insieme di soglie, di confini fisici oggettivamente esistenti in natura e quindi non dilatabili artificialmente2.
Al rischio ecologico in condizioni di sviluppo pacifico del sistema, si aggiunge quello bellico–nucleare. Il breve ma storicamente concitato periodo trascorso dopo la caduta del muro di Berlino ha dimostrato la coessenzialità della dimensione militare (anche sul piano delle armi di distruzione di massa) al capitalismo occidentale, e particolarmente del paese leader nordamericano, pur in assenza d’una minaccia estranea. Di questa coessenzialità fanno parte sia l’aumento degli armamenti – che tende a rimuovere gli accordi di divieto e controllo stipulati con l’Unione Sovietica – sia il loro continuo perfezionamento tecnologico, fino alla ripresa del progetto di Star Wars.
Venuta meno infatti la potenza militare dell’Urss e dei paesi del Patto di Varsavia, non c’é stato un vero disarmo, ma una riduzione quantitativa degli ordigni ampiamente compensata dalla modernizzazione dei sistemi d’arma e dall’adeguamento dei modelli strategici e bellici, reso visibile nelle guerre degli anni "90. Il concetto di minaccia é stato sostituito da quello più indeterminato di rischio, e il nucleare non é stato abbandonato; al contrario, si riscontra una sua banalizzazione3 sia nella produzione di nuovi armamenti che incorporano e diffondono elementi radioattivi (é il caso dell’Uranium Depletum), sia nel lessico militare corrente.
La presa in considerazione di ipotesi d’uso di armi nucleari e la loro pubblica giustificazione da parte dei decisori politici, l’uso di proiettili all’uranio e di bombe dotate di capacità distruttiva immediatamente subatomica sono premesse necessarie alla formazione d’una generazione culturalmente e psichicamente non più reattiva ad eventualità contro le quali si erano mobilitate le generazioni precedenti. Svanita l’occasione che offrivano all’umanità le proposte sovietiche di controllo e disarmo bilanciato, la forza espansiva dell’Occidente, che ha caratterizzato la storia moderna e contemporanea, é riemersa con modalità nuove, ma sempre presupponendo quello stesso diritto di dominazione che diede luogo al colonialismo e all’imperialismo.
La contiguità e complementarità dei due rischi – il nucleare e l’ecologico – non é solo nella sinergia e nella convergenza, ma nella loro comune origine. Come più estesamente diremo nel prosieguo dell’esposizione, gli ecologi datano la rivelazione e la scoperta della diffusione della radioattività dalle registrazioni, avvenute nel 1953–54, del fallout radioattivo delle esplosioni e delle lavorazioni nucleari negli Usa e nell’Oceano Pacifico. Secondo Barry Commoner "i tests nucleari avevano involontariamente avviato il primo esperimento ambientale globale nella storia dell’uomo"4.
"L’Era dell’Ecologia – scrive Donald Worster – ebbe inizio il 16 luglio 1945 nel deserto del Nuovo Messico, vicino alla città di Alamogordo, con una abbagliante sfera infuocata di luce e un fungo rigonfio di gas radioattivi. [...] Chiaramente, il, sogno di Francis Bacon di estendere l’impero umano sulla natura "fino al compimento di tutte le cose possibili’ aveva preso improvvisamente una piega macabra, addirittura suicida. La bomba gettava dubbi sull’intero progetto di dominio della natura che stava alla base della storia moderna e sollevava incertezze sulla legittimità morale della scienza, sul ritmo tumultuoso della tecnologia e sul sogno illuminista di sostituire la fede religiosa con la razionalità umana come base del benessere materiale e della virtù"5.
Prosegue Worster rilevando che "il primo studio ecologico dell’era atomica" fu quello compiuto per cinque anni da un gruppo di biologi mandati dal governo americano a constatare le condizioni dell’atollo di Bikini e della catena trofica marina dopo l’esperimento che vi era stato condotto il 1Ì luglio 19466. L’éra dell’ecologia coincide quindi con l’"éra atomica", espressione più comune per definire la storia del mondo dopo il bombardamento di Hiroshima, all’indomani del quale, e prima ancora di Nagasaki, si cominciò ad usarla7.
I due problemi e i due rischi si cumulano dunque in uno sul piano scientifico e nei possibili scenari mondiali. Un’eventuale guerra nucleare esalterebbe il rischio ecologico, e allo stesso modo l’estremizzazione del rischio ecologico e il "tetto’ delle risorse saranno causa di guerre parossistiche8
Per una nuova visione della storia
Le attinenze storiografiche di questi problemi sono sufficientemente chiare, ma vanno evidenziate e ragionate. In qualche momento delle discussioni che si sono svolte a questo riguardo in Italia si sono udite voci esplicitamente o implicitamente positive sulla capacità della storiografia di far proprie le tematiche dell’ecologia, annettendosi nuovi interessanti capitoli o arricchendo di qualche unità le già esistenti discipline ancillari9. Queste posizioni – pur riduttive – rappresentano un grado comunque positivo di registrazione del nuovo, mentre in generale prevalgono ignoranza e rimozione. A quanto risulta, una migliore situazione può riscontrarsi sul piano internazionale, e specialmente nei paesi economicamente più avanzati; non taceremo tuttavia alcune riserve.