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Giano 57. Questo (ultimo?) numero (dicembre 2007)

Come abbiamo già comunicato con mezzi diversi, i tre fascicoli di "Giano" previsti per il 2008 non usciranno; si riprenderà, se le condizioni lo consentiranno, con il 2009. Dopo 19 anni di vita difficile - una durata che faceva pensare ad una sicura stabilità tra le principali riviste nazionali - "Giano" è costretto a sospendere le pubblicazioni. Lo fa malvolentieri, rendendosi conto che l'interruzione è un segno di per sé negativo; ma non è stata trovata una diversa soluzione ai problemi aperti.
Il motivo immediato della sospensione - ragioni di salute del direttore - è semplice e perfino sproporzionato; ma il Comitato Direttivo, da quasi tre anni al corrente della situazione, e al quale ho rimesso nel giugno scorso il mandato, non è stato in grado nelle riunioni e consultazioni degli ultimi mesi di designare un nuovo direttore, o una direzione collettiva, cui non sarebbe mancato il contributo di esperienza e di solidarietà di chi ha fondato e diretto fino a questo momento la rivista, che non può che auspicare una felice ripresa delle pubblicazioni.

Ciò significa, in primo luogo, che il CD non si è, in un tempo tanto lungo, costituito come gruppo coeso di progettazione e di lavoro, di diffusione e sostegno della rivista; ma significa anche che l'esperienza stessa di "Giano" non è rimasta immune dal clima generale di incertezza e di crisi. La Direzione può assumersi in questo la propria parte di responsabilità; può aver accentrato troppo su di sé, può aver richiesto una collaborazione senza corrispettivi culturali incoraggianti; può aver ecceduto in coscienza apocalittica, soprattutto, forse, può aver troppo insistito sul riconoscimento alla rivista di un valore politico precisatosi dagli anni '80 in qua, un valore che si è tentato appunto di costruire sulla base di quella coscienza. Sicuramente, la Direzione ha fallito nella formazione del gruppo direttivo e nel suo consolidamento. Dopo una fase iniziale di confronti duri e selezioni - una ricerca di identità e originalità proprie, un'insistenza sugli aspetti di responsabilità politica del lavoro intellettuale e sui temi centrali del nostro impegno, l'incontro con un editore intelligente e solidale, interessato anche all'orientamento culturale della rivista - la normale amministrazione ci ha preso la mano.
Il punto più importante sul quale riflettere sono proprio stati in qualche caso il rifiuto, in altri casi la scarsa disponibilità a considerare "Giano" come un'iniziativa politica e di accettarne la proposta di base, di tradurla in attività volontaria di agitazione, organizzazione e finanziamento, anche rendendo più frequente la periodicità e modificando la fisionomia dei fascicoli, rendendoli più agili e più tempestivi su fatti e problemi. Non era una proposta campata in aria. Veniva fuori dalla constatazione di alcuni dati di fatto inerenti alla crisi della civiltà umana e ai rischi già in atto, e dalla necessità di farsi un'agenda di priorità. Il mondo procede a velocità accelerata verso un buco nero della storia, e l'alienazione dominante, la rottura generale delle regole, la violazione sistematica del patto vitale con la natura segnalano drammaticamente che non c'è tempo da perdere.
Le parole che qui uso e i problemi che evoco possono apparire troppo grossi in relazione alla modestia di una rivista quadrimestrale letta da un migliaio o poco più di persone, faticosamente autofinanziata, la cui indipendenza è sempre stata considerata una condizione etica, una garanzia di salvaguardia dai liquami di una vita pubblica sempre più corrotta, sempre più anche a sinistra "integrata nel sistema". Parole grosse, dunque, ma calibrate su una crisi senza precedenti, nella quale il crollo dell'Unione Sovietica, la crisi di ogni socialismo nel mondo, la decadenza del collettivo hanno rilanciato il trend catastrofico specifico del nostro tempo, pertinente al modo di produzione capitalistico e alla relativa formazione economico-sociale; ma che insieme hanno dato valore di nuovo inizio e cogenza di moralità obbiettiva ad ogni tentativo, anche piccolo, anche apparentemente velleitario, di sottrarsi all'annientamento. Quella moralità e quella cogenza sono quanto Lenin riporta da Hegel - "uno spiegamento umano di piccole forze, che da ciò che pare insignificante traggono alla luce qualcosa di enorme". Ma a questo punto il discorso dovrebbe passare dalle nostre "piccole forze" al "qualcosa di enorme" che non sappiamo cosa sarà: se lo sviluppo smisurato e genocida dei valori che appartengono ad una sola rapace civiltà, a una sola formazione economico-sociale, a una concezione della natura a danno di tutte le altre, oppure il dispiegarsi estremo di un ripensamento che potrà avere un esito consistente solo se assumerà in tempo le forme d'una rivoluzione anch'essa "enorme".
"Giano" è una rivista figlia degli anni '80, nata nel solco della peace research ma assai presto obbligata alla ricerca di nuove vie, nuove proposte, possibili chances di pace stabile che non fossero quelle di una semplice composizione diplomatica o comunque di una qualsiasi fine della "guerra fredda", ma sussulti di coscienza escatologica, rivendicazioni di lotta e conquiste di popolo. Anche cominciando dal poco, da un seme gettato. Condizione prima per una rivista di questo genere è di non spalmare l'ecumene con un facile pacifismo, ma condurre un approccio sistematico dei punti di crisi, conoscere gli altri, andare oltre le efemeridi della politica internazionale per guardare in faccia i rischi incombenti, indicarne le fonti.
Finita la "guerra fredda" , molti guardavano al futuro come a una pacifica "fine della storia" affidata ad un bonario sistema unico. La peace research poteva tranquillamente diventare una disciplina accademica. Ripensando tuttavia al decennio successivo, tutto ciò appare inganno e delusione. Chi ha il mio curriculum ideale e non dimentica le determinazioni della storia non ha mai pensato che la lotta per la pace, nell'epoca delle armi nucleari e della mondializzazione come ultimo stadio dell'imperialismo richieda o rappresenti per se stessa una perdita di radicalismo politico. Chi ragiona in questo modo non sa mettere in rapporto il proprio marxismo inaridito con i tempi e i problemi nuovi. Il catechismo delle rivoluzioni del passato è sempre stato veicolo di quietismo programmatico o di nuova reazione. D'altra parte le antiche miscele di pacifismo e democratismo e la loro attuale incarnazione teologale in termini di "nonviolenza" sono anch'esse atteggiamenti rispettabili in un periodo cui il lógos occidentale sfida la perdita secca del mondo ed è necessario unire gli sforzi di chi ha fatto proprio l'imperativo ontologico. Il ricordo di quanto ho imparato da Ernesto Balducci mi vieta di considerare la religione un elemento divisorio.