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Giano

"Giano" è una rivista figlia degli anni '80, nata nel solco della peace research ma assai presto obbligata alla ricerca di nuove vie, nuove proposte, possibili chances di pace stabile che non fossero quelle di una semplice composizione diplomatica o comunque di una qualsiasi fine della "guerra fredda", ma sussulti di coscienza escatologica, rivendicazioni di lotta e conquiste di popolo. Anche cominciando dal poco, da un seme gettato.
Condizione prima per una rivista di questo genere è di non spalmare l'ecumene con un facile pacifismo, ma condurre un approccio sistematico dei punti di crisi, conoscere gli altri, andare oltre le efemeridi della politica internazionale per guardare in faccia i rischi incombenti, indicarne le fonti.
Finita la "guerra fredda" , molti guardavano al futuro come a una pacifica "fine della storia" affidata ad un bonario sistema unico. La peace research poteva tranquillamente diventare una disciplina accademica. Ripensando tuttavia al decennio successivo, tutto ciò appare inganno e delusione. <--break->Chi ha il mio curriculum ideale e non dimentica le determinazioni della storia non ha mai pensato che la lotta per la pace, nell'epoca delle armi nucleari e della mondializzazione come ultimo stadio dell'imperialismo richieda o rappresenti per se stessa una perdita di radicalismo politico. Chi ragiona in questo modo non sa mettere in rapporto il proprio marxismo inaridito con i tempi e i problemi nuovi. Il catechismo delle rivoluzioni del passato è sempre stato veicolo di quietismo programmatico o di nuova reazione. D'altra parte le antiche miscele di pacifismo e democratismo e la loro attuale incarnazione teologale in termini di "nonviolenza" sono anch'esse atteggiamenti rispettabili in un periodo cui il lógos occidentale sfida la perdita secca del mondo ed è necessario unire gli sforzi di chi ha fatto proprio l'imperativo ontologico. Il ricordo di quanto ho imparato da Ernesto Balducci mi vieta di considerare la religione un elemento divisorio.
Che si poteva fare dunque di utile in quei disastrosi anni '90, nei quali la caduta del muro e la dissoluzione dell'Unione Sovietica riesumavano - se non gli stessi modi politici - il mondo culturale definito dall'aut-aut "socialismo o barbarie" e dalle "idee del 1914"?
Io credo che nelle migliaia di pagine di "Giano", dei suoi vecchi "Quaderni", delle pubblicazioni collaterali riconducibili al nostro lavoro si possano trovare ipotesi e linee di ricerca che vanamente si cercherebbero in altri periodici più o meno sussiegosi e cartellizzati; né, purtroppo, in fogli più modesti ai quali il tradimento dei politici e dei chierici della sinistra ha tagliato l'erba sotto i piedi. Ricominciare non da zero, ma da capo.
Dunque, lotta contro le strutture dello sfruttamento e dell'imperialismo (Bush padre cominciò la "guerra infinita" nello stesso anno dello sfacelo dell'Urss, accelerato dalla sciagurata invasione dell'Afghanistan); ricerca e riconfigurazione delle forze sociali antagoniste in sé di quelle strutture; la ripresa di una discussione teorico-politica che stagnava tra opportunismo classico e "nuovo compromesso storico", e marginalizzava i problemi di sistema.
Ritorno ad un vero internazionalismo, vivo ancora nei gruppi raccolti in "Democrazia proletaria" e rinnovato nel contesto delle migrazioni di forza-lavoro, ristabilimento del rapporto storicamente vitale tra il socialismo interno di classe e un "partito mondiale della pace" che appariva in gestazione per altre vie che quelle classiste, ma capace di una dialettica inclusiva, elaborazione di una teoria della storia contemporanea che andasse oltre il lutto e indicasse problemi e orizzonti nuovi. Il tutto sotto il segno non dei vecchi abbecedari, non delle certezze dottrinali nella regolarità della storia, ma della dialettica dell'illuminismo e della democrazia, e anche degli indirizzi di ricerca nati al di fuori del marxismo, l'ecologia in primo luogo. Un intero sistema di riferimento andava ricostruito.
"Rifondazione comunista" occupò, nel quadro di queste ipotesi e delle concrete possibilità di dargli un corpo e un'anima, una posizione strategica. Non è il caso di farne qui la storia, che è apparsa all'inizio, a furor di militanti più che per merito di capi, indirizzata a restituire al comunismo la sua identità e dignità, poi è diventata tragica per il proletariato italiano e infine si è insediata in un quadro statuale che ha paralizzato ogni sua potenzialità dialettica sociale e ideale. "Rifondazione" è ora saldamente presente in Parlamento, ma si ritrova incapace di strategia propria, con un personale politico mediocre e divorato dall'opportunismo. Soprattutto, essa non ha promosso una politica culturale sotto il segno della ricerca, ed anzi ha smantellato e respinto le componenti, soprattutto generazionali, che potevano stimolarla. Sarebbe stato possibile, e ce n'era l'esigenza, che un lavoro di vera rifondazione critica diventasse un punto di richiamo politico anche per il pacifismo e l'ecologismo antagonisti, e che, inversamente, il nuovo agonismo anticapitalistico della pace e dell'ambiente arricchissero quel partito di nuovi elementi teorici e di una più consistente critica del capitalismo; ma così non è stato, né forse poteva essere, se si pensa all'esilità intellettuale del gruppo dirigente.
Anche "Giano", nel suo piccolo, è stato radiato dall'area di interesse di quel partito; credo che "Liberazione", dopo avere manifestato qualche platonico segno di curiosità, non abbia mai fatto oggetto i nostri sforzi d'una semplice segnalazione ai lettori.
Con l'altro "giornale comunista" abbiamo avuto rapporti formali (e ne ringrazio qui soprattutto Valentino Parlato) ma, anche in questo caso, assai poco produttivi di collaborazione e confronto. Tentativi di "incrociare" in qualche modo i temi e le firme non sono stati fruttuosi. Non vi è stata neppure una minima indulgenza di cortesia, se pensiamo all'estraneità perfino ostile, inspiegabile, di qualche settore del "manifesto". Eppure le convergenze di interesse politico e scientifico ci sono, sono numerose e importanti.
Sarebbe stato possibile un atteggiamento diverso? Non esiste più memoria della funzione di organizzazione politica della stampa controcorrente, testata per testata, problema per problema, target per target? Ma forse pretendiamo troppo, come del resto qualche vecchio compagno, tra gli iniziatori di quell'esperienza politica e del giornale, che ne ha rilevato con amarezza l'eclettismo. Forse non si può più pretendere di mettere nelle pagine di un "giornale comunista" tematiche come quella dello Stato, della guerra, della ricomposizione uomo-natura, del necessario "ritorno dell'uomo" rivisitate in senso forte e quasi in extremis, comparate con il marxismo teorico e la storia del comunismo, fatte nostre secondo quelle che furono già all'alba dell'altro secolo le premonizioni di Rosa Luxemburg, di Lenin, di Trotskij, di Bucharin. Quelle da cui nacque il "nostro" comunismo novecentesco.
E forse il nodo è ancora più grosso, sta nella crisi morale sulla quale soffiano a pieni polmoni i media, nella risoluzione americanizzante della storia nella cronaca nera, nel volgersi dei giovani a fonti dì apprendimento effimere, in una rottura dell'intelligenza rivoluzionaria, nel passaggio inavvertito dall'orgoglio antagonistico alla banalità della trasgressione individuale.

Vorrei che fosse chiaro che queste non sono le lamentele di un gruppo emarginato. Abbiamo prodotto più di dodicimila pagine secondo una visione del nostro tempo e un'impostazione dei suoi massimi problemi che è stata e rimane nuova. Abbiamo elaborato e ritradotto in riflessioni dure, anche angosciose, un enorme materiale documentario, in una serie di anni cruciali che hanno disegnato un bivio per l'uomo.
La coerenza che, in tempi non certo propizi, abbiamo sempre mantenuto, è nella collezione della rivista. Dopo due decenni di lavoro potremmo anche congedarci con animo tranquillo. Non lo facciamo, perché vogliamo sperare in una continuazione dell'opera, in una soluzione della crisi del Comitato Direttivo, in una nuova capacità di iniziativa per la quale sarebbe importante anche l'incoraggiamento di collaboratori, abbonati e lettori. Anche da loro dipende se quanto ho scritto non sarà stato un addio, ma un arrivederci. (luigi cortesi, dall'editoriale dell'ultimo numero di Giano)