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Il centro della scena

di Alberto Burgio

da "il manifesto", 17/03/2010

Una monumentale storia del comunismo di Luigi Cortesi. Le difficoltà della pianificazione, il drammatico e irrisolto nesso tra guerra e rivoluzione come elementi che hanno portato alla costruzione di un potere statale segnato dalla siderale distanza con l'iniziale progetto di società di liberi e eguali


La scena si apre sulla notte berlinese del 9 novembre dell'89, ma la scelta non deve ingannare. Questa Storia del comunismo di Luigi Cortesi (manifestolibri, pp. 815, euro 65) - summa di una vita di studio e di passione politica - prende avvio dal simbolo dell'implosione del blocco socialista ma muove in direzione opposta allo schema dominante che nella fine del «socialismo reale» legge la morte del comunismo. Rievocato il crollo del Muro, ecco la questione inusitata: «non è ancora ben chiaro che cosa sia stato quel comunismo o "socialismo reale"», quindi «che cosa fosse realmente crollato è tuttora storicamente sub judice».

È la mossa che decide l'intero sviluppo della ricerca. Ricerca vera, il cui svolgimento rettifica il taglio di partenza e impone un mutamento nei piani dell'autore. Cortesi aveva immaginato di arrivare al 1945; poi, dopo 800 fitte pagine, si arresta al '27, alla resa dei conti tra Stalin e Trockij. Che non potrà portare a compimento il disegno originario è un motivo di rammarico che aggrava il dolore per la sua scomparsa.

Chiedersi che cosa sia crollato tra l'89 e il '91 impone di interrogarsi sul rapporto tra «socialismo reale» e comunismo, quindi di definire quest'ultimo. Cortesi lo intende come l'altro del capitalismo: la sua «ombra cattiva, che esiste da quando nacque il capitalismo e durerà quanto il capitalismo». Sussiste perciò una irriducibile eccedenza del comunismo rispetto ai risultati delle lotte. «Il tentativo fallito è altra cosa che il superamento delle sue ragioni», nessuna rivoluzione esaurisce il bisogno che l'ha determinata.

Si dovrebbe a questo punto aprire il ventaglio delle rilevanti implicazioni di questo assunto. Limitiamoci alle due principali. Ne discende, in primo luogo, un progetto ambiziosissimo, che un grande storico della Shoah definirebbe di «storia integrata» (Saul Friedländer). Non ci si può limitare alle storie ufficiali di Stati, organizzazioni e grandi accadimenti, la storia del comunismo essendo innanzi tutto storia del «basso», delle lotte politiche e sociali di massa. E delle passioni e sofferenze del proletariato, che lo storico deve leggere cogliendo nella spontaneità del conflitto «la sorgente socio-culturale inesauribile dell'obiezione socialcomunista». È qui trasparente la critica a certa storiografia accademica, come pure la ripresa della polemica degli storici dell'«altro» movimento operaio (Stefano Merli e Karl-Heinz Roth), oltre che della lezione degli storici orali (Gianni Bosio e Danilo Montaldi).

Alla scoperta delle radici

L'altro corollario è direttamente politico. Contro il «sillogismo» che dall'identificazione tra comunismo e Urss desume la morte del comunismo Cortesi è durissimo. Questa «estrema leggerezza» - figlia del «nuovo trasformismo» - innalza una «barriera di conoscenza» che non solo divide le generazioni, ma «stronca ogni ricerca», legittimando l'assolutizzazione del capitalismo. Una catena di conseguenze si diparte da qui e conduce alla condizione devastata in cui ci è dato vivere, travolti dalla crisi verticale del movimento di classe.

Coerente con questa impostazione, il racconto muove dalle prime «proposte moderne di socialismo» concepite tra Cinque e Seicento, quindi analizza le vicende della I e della II Internazionale, sino all'ultima riunione di questa alla vigilia della guerra mondiale. L'attenzione si volge poi alla lunga preparazione dell'«Ottobre rosso», dalla rivoluzione del 1905 all'insurrezione del '17. Al centro giganteggia la figura di Lenin, del quale Cortesi sottolinea la capacità di conquistare un seguito di massa (a cominciare dai decisivi Soviet di Pietroburgo) nell'estenuante braccio di ferro con l'opposizione menscevica e «semi-bolscevica».

Un elemento non meno rilevante è l'«audace strategia politica» consegnata alle pagine di Stato e rivoluzione, culmine, per Cortesi, della progettualità comunista. Ma l'opera di Lenin, scritta a cavallo della rivoluzione, è indizio, al tempo stesso, delle ambiguità nelle quali avrebbe trovato alimento il germe della degenerazione repressiva. L'identificazione tra Stato-guerra e Stato parlamentare induce già Lenin a sottovalutare procedure e garanzie democratiche, producendo il paradosso di una critica della statualità che, nel giro di un decennio, vede l'avvento di un potere statuale permanente, fondato sulla confusione tra Stato e partito e praticato come «universalizzazione sostitutiva» del protagonismo di massa.

La restaurazione staliniana

Su questo rovesciamento fa leva la «restaurazione» staliniana, sulla quale Cortesi formula giudizi univoci. Il nuovo corso (chiaro già nel '24) si incentra sul «monopolio del comunismo» nelle mani del vertice politico; sulla cristallizzazione dottrinale del marxismo-leninismo; sulla bolscevizzazione autoritaria, sanzione di una irreversibile crisi dell'internazionalismo. È in nuce la linea del socialismo «in un Paese solo», incardinata sulla trasformazione del partito in organizzazione burocratica di massa comandata con tecniche plebiscitarie. Cortesi commenta: il contesto «storico-materiale» della rivoluzione (l'impasto tra i caratteri profondi della lunga durata e il trionfalismo prometeico della modernità) si vendica delle «buone intenzioni», avviando la transizione verso la «divaricazione tra la rivoluzione e il comunismo».

Ma l'aspetto più rilevante della ricostruzione è l'insistenza sul carattere politico della vittoria di Stalin, frutto non solo di una maggiore coerenza nella lotta, ma anche di una più lucida coscienza del fine. Se Zinov'ev soccombe, è perché la mediazione tra operai e contadini da lui propugnata è inadeguata al rilancio della produzione, ancora nel '26 lontana dai livelli pre-bellici. E se la prima «degenerazione» dell'esperienza sovietica consegue al «fallimento dei criteri originari della pianificazione», essa si direbbe figlia del degradarsi di questa a gestione dell'industrializzazione pesante accelerata, piuttosto che di errori strategici sulla direzione intrapresa.
Alla narrazione della «decadenza del "sogno" dell'Ottobre» si intreccia la ricostruzione, non meno partecipe, della vicenda del comunismo italiano, a partire dalla scissione di Livorno decisa dalla «sinistra» bordighista in contrasto con l'Internazionale. Sulla scorta delle sue antiche analisi sulle Origini del Pci (1972) - un controcanto alla storiografia «ufficiale» di Spriano - Cortesi ripercorre questa vicenda con rigore ma senza dissimulare le proprie propensioni: l'affinità con le posizioni di Bordiga (astratto e settario, ma coerente nel sostenere una linea di intransigente iniziativa classista), la distanza critica da Gramsci, la decisa avversione allo «stalinista» Togliatti.
Il gradualismo di Gramsci

La lotta interna al gruppo dirigente, che culmina con la vittoria del «centro» gramsciano, è illustrata nel contesto del rapporto con l'Internazionale e letta in simmetria con quella che divampa nel partito russo. Bordiga è il «Trockij italiano», Gramsci non è «un bolscevico in Italia», ma si muove con «intelligente cinismo», forte della consonanza tra le proprie posizioni (che Cortesi bolla come «moderato gradualismo» di ispirazione kautskiana e tradeunionista) e quelle dell'Esecutivo di Mosca. Di qui, in capo a un conflitto non esente da colpi di mano, la sconfitta di Bordiga e l'imposizione di una «gerarchia segretariale» dominata da Gramsci e Togliatti e destinata ad agire (dopo il '45) come «un coperchio o un freno messo al permanente livornismo della base di classe».
Sono queste forse le pagine più soggettive del libro. Non si vuol dire meno convincenti, trattandosi di una linea storiografica (e politica) consolidata. Ma certo qui lo storico indossa panni militanti. La riflessione e l'iniziativa politica gramsciana sino alle Tesi di Lione sono oggetto di critiche severe. L'esperienza dell'Ordine Nuovo è considerata una regressione a un generico movimentismo interclassista; la teoria dell'egemonia e della «guerra di posizione» è letta come il sofisticato esito dell'abbandono della prospettiva rivoluzionaria e della dispersione del respiro analitico internazionale: posizioni indiscutibilmente legittime, ma non esenti da forzature che gli sviluppi analitici nei Quaderni si incaricano di mettere a nudo.

Si tratta ad ogni modo di limiti puntuali, che nulla tolgono all'importanza del lavoro. Questa Storia offre un quadro ricchissimo, impreziosito dall'equilibrio tra accuratezza del dettaglio e coerenza del disegno. A fare di essa un testamento politico è poi la tensione etica della narrazione, sorretta dallo sforzo di far luce sulle implicazioni teoriche sottese allo svolgimento degli eventi.

Risalta, a questo riguardo, l'insistita riflessione sul nodo rivoluzione/guerra, sempre più influente nella stessa esperienza militante di Cortesi, razionalmente ossessionato dalla coscienza del rischio dell'annientamento totale generato dalla scoperta dell'arma nulceare.

Da una parte, la rivoluzione è per definizione guerra alla guerra. (già l'Ottobre è «opposizione alla guerra totale che si annunciava»); dall'altra, sussistono, tra le due, «specularità e compenetrazioni», non solo perché la guerra sovente favorisce la rivoluzione, ma anche per il fatto la paura della rivoluzione spiega in parte lo scoppio di una guerra. Tende a instaurarsi, su questa base, una «sinonimia totale o parziale» tra la rivoluzione (in nome della pace) e la guerra (civile), entrambe espressioni di violenza, e in che misura tali similitudini abbiano influito, non solo sulla storiografia di ascendenza schmittiana, lo dimostrano sia l'incidenza delle tesi revisionistiche sia, da ultimo, lo spazio conquistato dalla retorica della non-violenza.

La rivoluzione sfigurata

La serrata polemica di Cortesi, pacifista militante, contro tali posizioni attraversa l'intero sviluppo della narrazione. Quella tra guerra e rivoluzione è a suo giudizio un'analogia apparente e fuorviante: le masse rivoluzionarie sono qualitativamente diverse dalle masse inquadrate nell'impresa bellica; questa devasta l'internazionalismo - cuore della lotta rivoluzionaria - quindi sfigura la rivoluzione, militarizzandola e snaturando il conflitto di classe. La stessa posizione non-violenta si rivela non di rada vacua, nella misura in cui non considera la differenza che separa la violenza dettata dalla «volontà di rinnovare le regole di convivenza» da quella mossa dall'odio e dalla prevaricazione. Morale, ne conclude Cortesi, è solo il ragionamento che queste differenze tiene nel debito conto, poiché la scelta tra ragioni opposte, non eludibile, chiama in causa la responsabilità.
Bastino questi cenni a dare un'idea della complessità di un ordito narrativo di sorprendente attualità. Del resto, che la narrazione sia rivolta anche al presente e al futuro, Cortesi lo afferma a chiare lettere. Come quando scandalosamente scrive che «il comunismo è stato Rinascimento e Illuminismo» e «potrà ancora esserlo» se ritroverà «la propria identità politica»: se e quando, cioè, tornerà alla fonte sorgiva, inscritta nelle domande delle «moltitudini di disperati», sempre più pressanti via via che il capitalismo imperialista avanza nella propria storia di violenza e di devastazione.